C’è un ponte inequivocabilmente normanno – il ponte di Sant’Antonio –, che la tradizione vorrebbe romano, sotto Guardialfiera, a lungo l’unico in zona per valicare il Biferno. Un ponte su cui passò, sempre secondo la vulgata e nient’altro che questa, Annibale e su cui non poté passare un papa: al tempo era sommerso dalla piena passeggera del fiume, oggi invece è stato definitivamente inghiottito dal lago.

Guardialfiera è il primo comune bassomolisano del nostro tour, e questa cosa del ponte, della traccia di un passato importante sommersa dalle esigenze (in questo caso idriche) di un presente che arranca è una buona sintesi della storia del territorio. Il lago, tagliato in due da un lungo ponte sinuoso che mi terrorizzava da bambino, una cosa così bella che sembra essere lì da sempre, è in realtà datato 1973, anno in cui fu ultimata l’imponente diga del Liscione, con inaudito dispiegamento di forze.

Ma veniamo al paese. Mille abitanti – diede i natali nientepopodimeno che a Francesco Jovine – e (almeno) mille anni di storia. Il nome deriva da Alfiero, signore longobardo della contea di Larino (XI sec.). La stessa Larino che fu conquistata, nel 1050, da Roberto d’Altavilla, il Guiscardo, il primo dei Normanni (che fighi i Normanni). La sua discesa in Italia, al confine con lo Stato Pontificio, non poteva certo lasciare indifferente il papa Leone IX, il quale si cagò sotto, preparò un esercito e nel 1053 si lanciò all’inseguimento dell’invasore.

Ma il Biferno, come un Piave ante litteram, ne frenò la corsa e lo costrinse a fermarsi a Guardialfiera, appunto. Dopo essersi abbondantemente rimpinzato, il papa ripartì ma fu sconfitto pochi giorni dopo a San Paolo di Civitate (in Puglia) e fatto prigioniero. Ciò non impedì alla eco di cotanta accoglienza di espandersi negli anni fino a Roma e lì, nel 1061, Alessandro II nominò Pietro – “riconoscibile” in un bassorilievo sulla parete della chiesa – primo vescovo della diocesi di Guardialfiera, assorbita da Termoli nell’Ottocento.

A proposito del passato occultato (anche in bella mostra) o comunque ridotto a pura materia per nuove esigenze: la chiesa di Santa Maria Assunta, tra le più enigmatiche del Molise, è ancora una volta una buona sintesi del tipico modus agendi. Nelle pareti della chiesa (forse edificata nell’XI sec. dal grande Desiderio, abate di Montecassino, e ricostruita dopo il – solito – terremoto del 1456, con l’aggiunta di una Porta Santa, una delle pochissime fuori Roma) sono incastonate decine e decine di pietre lavorate, con elementi geometrici e strane figure: pietre avvolte dal mistero, che vengono, forse, da un antico tempio ancora-forse pagano che sorgeva in quel luogo. Ovviamente, come la grotta di Sant’Angelo e il castello di Pescolanciano, anche la chiesa – con tanto di cripta e reliquie del patrono San Gaudenzio, arrivato nel Settecento dalle catacombe di Santa Priscilla (chiarisco: non a piedi, sono andati a prenderle ‘ste reliquie) – era chiusa. Il prete, in una vecchia Panda rossa e in canotta bianca a costine sotto sbottonata camicia azzurra, mi ha detto che l’aveva appena chiusa per andare a dire messa in una cappelletta lungo il corso.

Sono un po’ sfigato, lo so, ma va bene così: quando tutto è aperto e disponibile il ritorno è precluso, il desiderio stesso di tornare è disattivato. E dopo ‘sta botta di filosofia, il sole tramontava. Casa.

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