A valle, qualche nobile di Larinum aveva la sua villa rustica; a monte, nei secoli successivi, i benedettini c’avevano costruito un granaio, ora perduto. Il paese però nasce solo tra XI e XII secolo, per volere dei conti longobardi di Larino, prima, normanni di Rotello, poi, che riunirono su quest’alta collina i contadini dispersi nei campi circostanti. Nasceva così il primo castrum, la prima delle cinque contrade che costituiscono il borgo, la “Terra”, con mura, perse, un castello, irriconoscibile, una chiesa dedicata a Santa Maria ad Nives, trasfigurata.
Alla costante distruzione del patrimonio storico fa da contraltare l’accoglienza del suo piccolo popolo (300 anime scarse), ma le cose sono legate tra loro. In origine, Montelongo fu ricettacolo, e ricettacolo continuò ad esserlo fino al XVII sec., con l’arrivo di gente dall’Est, Slavi di varia origine, ecc. da cui le due contrade extramurali, la “Costa” e la “Croce”, dove sorge la cappella al patrono San Rocco che salvò i montelonghesi dalla peste del Seicento. Le ultime due contrade, “Fontanelle” e “Roma” sono molto più recenti.
Ora, una divisione in contrade è sempre sintomo di contesa: per 40 anni, in occasione della festa patronale, è stato organizzato un Palio. Prima dei cavalli, correvano gli asini e prima ancora chissà. Resta il fatto che si tratta, ora come forse anche allora, di una competizione “falsa”, ludica. Il fatto, ad esempio, che non vi sia traccia dello slavo nella lingua o nelle pietre lascia presupporre che non vi sia stato un vero conflitto: la nascita di varie contrade extramurali sarà stata una semplice esigenza logistica. E si può immaginare che l’accoglienza fosse la stessa di oggi, e che anche popolazioni diverse si siano tranquillamente inserite nel tessuto sociale.
A Montelongo non ci sono capitato: ci sono nato a metà, per così dire. Mia madre, i miei nonni, i miei bisnonni sono di lì, le mie estati le ho passate lì, metà del mio dialetto è quello parlato su quel “monte di aria perfetta, che è alquanto lungo” – per recuperare l’incipit con cui Giovanni Andrea Tria, vescovo e primo grande storico di Larino e diocesi, apre il capitolo del suo “Memorie” (1744) dedicato a Montelongo.
Focus su quell’aria perfetta – “aria fin’” direbbero qui –, ché non è solo una questione di condizioni atmosferiche favorevoli, è soprattutto una questione di leggerezza. Si respira leggerezza a Montelongo, nonostante le salite, nonostante undici mesi su dodici sia deserto e noia, nonostante o forse proprio in virtù di un continuo rapporto faccia a faccia con la fine, quella del paese stesso, che va spopolandosi, quindi depotenziandosi inesorabilmente. C’è una curiosità interessante, in qualche modo collegata a tutto ciò: qualche anno fa Montelongo occupava una delle prime posizioni nella classifica dei paesi italiani col più alto rapporto laureati/abitanti. C’è un senso cioè di placida rivalsa, c’è una nascostamente disperata voglia di continuare a esistere. Ed è anche per questo che l’agosto montelonghese è un piccolo miracolo. Non perché ci siano manifestazioni epocali in grado di attrarre flussi incredibili. E figurarsi se ci si azzarda a impegnarsi da un punto di vista culturale (e meno male, direi). Parliamo di sagre, serate musicali, giochi e grosse bevute, niente di inedito o mai visto prima. Ciò che stupisce, che mi ha sempre stupito è la forza di volontà, lo spirito di intraprendenza, l’assoluta unità d’intenti che contraddistingue i giovani di Montelongo, i suoi figli naturali e adottivi. “Far sì che il paese non muoia” è un grido interiore che porta chi vive a Montelongo, chi magari ha solo radici e chi ormai studia, lavora e abita altrove a sacrificare mete vacanziere e serate agostane, il cuore dell’estate, per fare panini, spostare panche, organizzare cene e feste di piazza. L’aria perfetta è quella in cui si respira comunità.
Ma se Montelongo ha sempre accolto i lontani, tra vicini – mmh… – non ci si può proprio vede’. Così, a pochi chilometri ci aspettava il “nemico”. Ma nel frattempo, casa.
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