Sottotitolo: “Ecch’ s’m’ nat’, ecch’ c’ m’r’m’” (trionfo di consonanti e apostrofi da leggere come schwa: “Qui siamo nati, qui moriremo”). È piena di alti valori, splendide suggestioni e arti di ogni tipo San Martino in Pensili (l’antico nome del promontorio su cui sorge, a cui qualche simpaticone nell’Ottocento aggiunse una “s” latineggiante).
Lo confesso, ho un debole per San Martino. Un debole legato al suo essere tradizionalmente enclave rossa. Come la bandiera, intendo. Ma anche come la pampanella, a mani basse la più grande espressione culinaria e artistica – dico davvero – del Molise, nonché sua perfetta metafora: preparazione lenta, sapore deciso, totale, chi la assaggia impazzisce; ma non è protetta da un marchio, quindi non è esportata, non è conosciuta, e per assaggiarla tocca venire qui. È un popolo geloso, quello molisano, e ogni manifestazione della sua essenza non può essere scissa dal territorio cui appartiene (io lo vado dicendo da molto prima che diventasse un concetto mainstream grazie a Selvaggia Lucarelli).
4700 abitanti, quasi una città per gli standard regionali. La fondazione è datata, forse, VII sec., a opera di monaci in fuga dai barbari, provenienti dal convento di San Felice a Cliterniano, paese verso il mare. La prima vera attestazione storica risale però al XII sec., a quando cioè Cliterniano venne distrutta da un terremoto e San Martino iniziò a figurare nei documenti come feudo del conte normanno di Rotello. Ma indipendentemente dalla fondazione, le origini della realtà sanmartinese sono legate a quest’ultimo contesto, poiché in esso avvenne l’episodio chiave della sua storia.
Un conte di Rotello, Roberto di Bassavilla, andò a caccia con altri nobili locali proprio verso le rovine di Cliterniano. Arrivati sul luogo, i cavalli si inginocchiarono rivolti verso un altare in rovina. Tolta la polvere, la scoperta: “Qui giace il corpo di San Leo” (probabilmente un monaco del vecchio convento). Subito il dilemma: a quale chiesa assegnare le sacre reliquie? Seguì rissa, ça va sans dire, al che Roberto disse: “Mettiamo ‘sta cassa su un carro e lasciamo che i buoi decidano la destinazione finale”. Via, partì una corsa sfrenata che attraversò vari paesi, poi cambiò direzione e arrivò, coi buoi esanimi, di fronte all’antica chiesa di San Martino di Tours (ora di San Giuseppe) – a proposito, santo di sinistra, il vescovo Martino, quello del mantello al viandante, per capirci. San Martino in Pensili aveva il suo patrono… e la sua festa: il 30 aprile tre squadre, Giovani, Giovanotti e Giovanissimi, si affrontano in una corsa con carri trainati da buoi, appunto, e spinti da cavalieri al seguito. Il percorso è lungo 9 km, parte da un tratturo in prossimità dell’antica Cliterniano (oggi Nuova Cliternia), e lungo il percorso c’è anche un pit stop per il cambio buoi. Vince il carro che prima attraversa la Porta di San Martino e che così acquisisce l’onore di portare in processione, il 2 maggio, Sand’ Lé. Tradizione secolare, la Carrese, che accomuna San Martino ai paesi limitrofi; perlomeno fino all’ascesa dell’ideologia animalista e a leggi che penalizzano fortemente le tradizioni in cui sono protagonisti gli animali. Ma qua si resiste e non ci si scoraggia mai [la foto del carro dei Giovanotti – non mia – è esemplificativa, per carità].
Tre luoghi d’interesse: la chiesa madre di San Pietro apostolo, settecentesca e barocca, l’antico castello, poi Palazzo baronale, poi municipio (+ abitazioni private); il belvedere mozzafiato su buona parte del Basso Molise. Ci sarebbe anche il convento rurale di Gesù e Maria, quattrocentesco, appena recuperato, con un Cenacolo di scuola leonardesca, ma non abbiamo fatto in tempo. Torneremo. Per ora, casa.
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