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Molise 18/136 – Campobasso

La Piazzetta Palombo è un’ottima metafora per comprendere Campobasso: un’isola incantata, incastonata nella città ma anche separata da essa, ben nascosta, quasi a simboleggiare, attraverso l’urbanistica, un certo snobismo, la natura contraddittoria di una città di provincia. Parliamo quindi del centro del Molise, di come sia diventato centro dal nulla e senza motivazioni storiche profonde, ma semplicemente per aggregazione, favorito dalla centralità geografica e dal magnetismo che esercita una spianata tra i monti (da cui, probabilmente, il nome) – e siamo comunque a 700 metri d’altezza (quasi 800 il primo insediamento sull’altopiano). Solo questo, perché in fondo neanche la presenza di qualche reggente “illuminato” ne giustifica il predominio territoriale.



Del resto, le chiese piccole e un castello che aveva fondamentalmente funzione di vedetta testimoniano che fino all’Età moderna Campobasso era come se non esistesse. Qualcosa cambiò proprio dalla metà del Quattrocento in avanti. Il terremoto apocalittico del 1456 permise a Cola Monforte di ricostruire la “sua” Campobasso, e i Gonzaga, che arrivarono nel 1530, capirono l’importanza di installare la loro residenza nel punto nevralgico del paese, al crocevia delle sue fiorenti attività commerciali. Questo è bastato a Campobasso per divenir “centro”.



Un centro di gravità, a tratti un buco nero, che può permettersi di ospitare il meraviglioso Museo Sannitico, pieno di reperti provenienti dai territori pentri e frentani, senza essere, Campobasso, né pentra né frentana, non esistendo di fatto a quei tempi. Campobasso è centro, un tutto agglomerante, proprio perché in fondo è niente, o meglio, non è niente di che, niente di particolare. In questo riesce a essere insieme la città che peggio rappresenta il Molise e quella che lo rappresenta meglio.



Beh, senz’altro ci rappresenta nelle tradizioni, non antichissime ma meravigliose: dall’Infiorata di fine maggio per le scalinate suggestive del centro storico, al Venerdì Santo da pelle d’oca, con un coro di centinaia di persone che canta a pieni polmoni il “zuchetezù”. E poi, i Misteri. Tale Paolo Saverio di Zinno era uno scultore campobassano del Settecento, uno di scuola napoletana che faceva statue di santi, sparse un po’ dappertutto. Era così rispettato che i notabili della città gli affidano la reinvenzione della processione del Corpus Domini. E l’idea di di Zinno è obiettivamente una grande idea: costruisce tredici impalcature in ferro, pesanti, resistenti e flessibili: ciascuna di esse è finalizzata a riprodurre una scena sacra “in carne e ossa”: uomini, donne e bambini interpretano santi, angioletti, diavoli e donzelle. Ogni Mistero è portato a spalla da una marea di uomini, e il tempo del passo – essenziale per non cedere al peso – è scandito dal Mosè di Rossini che una banda esegue a ripetizione dietro ogni allegoria.



Ma veniamo alla storia. Le prime attestazioni certe di Campobasso risalgono al periodo longobardo: un insediamento contadino, attorno a una torre d’avvistamento in legno. Sarà Ugone, il feudatario inviato qui dai de Molisio, signori normanni di Bojano, a fortificare la torre. Viene edificata in questo periodo la chiesa di San Giorgio, patrono (dimenticato; nel senso che, poverino, non se lo fila nessuno) da quando, nel Duecento, apparve a guidare l’esercito cittadino contro quello, temibilissimo, di qualche paesotto vicino. Nel frattempo comunque l’inurbamento amplia il piccolo villaggio: sorgono le chiese di San Bartolomeo e San Leonardo, e in generale ci si espande simultaneamente su due lati del monte, a ventaglio. La pietra per costruire case e chiese, quella che altrove veniva riciclata da anfiteatri, templi e altra roba antica, i campobassani la cavano dalla montagna. Si creano dei sotterranei così ampli da assumere poi una funzione militare, di strategia, d’agguato e di fuga.



Lo stratega che per primo li vide in quest’ottica fu il conte Cola Monforte: a lui si deve l’attuale aspetto del “castello” – insignificante, diciamocelo –, l’altopiano lasciato sgombro da abitazioni, una doppia cinta muraria – crollata in buona parte col terremoto del 1806. Poi succede che Cola si schiera contro re Ferdinando d’Aragona. Grande condottiero Cola, per carità, ma quando gli Aragonesi gli incendiano il feudo di Pontelandolfo, lui se ne scappa in nord Italia con la coda tra le gambe.



Campobasso passa ai De Capua e poi ai Gonzaga. Sorge a valle – valle per modo di dire – il palazzo signorile, la chiesa principale, quella della SS. Trinità (cattedrale solo dal 1927, quando la diocesi venne spostata qui: provate a chiedere ai triventini cosa ne pensano), ed è a valle che la cittadina freme, sfrigola, arde come le fornaci dei tanti orefici, tintinna come i soldi dei suoi mercanti.



Risale a quest’epoca anche la diatriba tra due famiglie nobiliari, i Crociati e i Trinitari, ricomposta solo con l’intervento di frate Geronimo da Sorbo durante la Quaresima del 1587 (evento rievocato con tanto di corteo storico). Una diatriba di cui furono vittime Fonzo Mastrangelo e Delicata Civerra, i Romeo e Giulietta campobassani, con la Giulietta del caso, però, murata dal padre in una torre (nessuno spirito ad animare Torre Terzano nelle notti di luna piena, peccato, solo un manichino malinconico) e Fonzo che, appresa la morte dell’amata, si fa monaco.



Arriviamo al 1807, quando il re della Napoli napoleonica, Gioacchino Murat, rendeva Campobasso capoluogo del Contado di Molise e predisponeva l’ampliamento extramurario del centro, quello per l’appunto coi palazzi ottocenteschi, le grandi piazze, il municipio e la statua eretta a Gabriele Pepe, filosofo hegeliano, napoleonico, patriota, cugino di Vincenzo Cuoco. Dall’anno scorso, c’è anche un’altra statua da quelle parti, quella di nientepopodimeno che Fred Bongusto, vero orgoglio cambuasciano.



L’espansione è continuata nel secondo Novecento (oggi CB fa 50 mila abitanti), con la nascita delle grandi industrie (la Molisana su tutte) e quella della stessa Regione Molise, ma assumendo le tinte pastello ingrigito e cemento armato tipiche dei casermoni degli anni Sessanta. Immaginate di salire la Via Matris, in cui ogni albero è dedicato ad un campobassano caduto nella Grande Guerra, e di arrivare al castello Monforte, affacciarvi, aspettarvi un panorama mozzafiato e ritrovarvi davanti un caos amorfo di palazzi impersonali. Ma in fondo in questa bellezza che resta potenziale, quella che sai che può esserci ma che resta strozzata in gola, Campobasso rappresenta sì, e tremendamente bene, il Molise. Casa.

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